Quando si parla di obesità si fa riferimento a una patologia cronica, anticamera di altre patologie: diabete di tipo 2, sindrome metabolica, gotta, ipertensione, problemi cardiovascolari e tumori.

Negli corso dei decenni è cambiato l’approccio terapeutico al paziente obeso. Negli anni ’60-’70 si assisteva all’esasperata ricerca di una rapida perdita di peso, con diete restrittive e prodotti pericolosissimi per la salute, quali le anfetamine. Il paziente era sottoposto a continue restrizioni caloriche che, via via, divenivano intollerabili e quindi abbandonate.

Dagli anni’90 in poi il concetto di obesità si modifica: come malattia cronica, di origine multifattoriale, viene curata modificando lo stile di vita dei pazienti. I traguardi ponderali raggiunti sono più modesti ma più realistici e vengono offerte diete più sostenibili a lungo termine.

Vi è stata una vera e propria evoluzione concettuale nella terapia dell’obesità; si  è passati dalla sola dietoterapia alla responsabilizzazione del paziente obeso. Oggi i professionisti  ben riconoscono che questa patologia richiede più attenzioni psicologiche e comportamentali, piuttosto che restrizioni dietetiche!

E’ necessario, quindi, non parlare di peso, ma di composizione corporea dei pazienti: è utile valutare il loro dispendio energetico e proporre dei cambiamenti reali riguardo al loro stile di vita. La dieta deve rientrare in un progetto terapeutico più ampio, che prevede la combinazione di una terapia dietetica,  di attività fisica e soprattutto di una terapia comportamentale.

Il paziente, modificando le proprie abitudini alimentari e comportamentali, deve raggiungere un “peso ragionevole“, cioè un peso ipotizzato come raggiungibile e mantenibile sia nel breve che nel lungo periodo. Si ricordi che una perdita di peso moderata (5-10%) è già in grado di ridurre iperglicemia, dislipidemia e ipertensione.

 

 

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